Marguerite Yourcenar, Memorie d’Adriano

gennaio 14, 2017

“A Roma, durante i lunghi pranzi ufficiali, mi è accaduto di pensare alle origini relativamente recenti del nostro lusso; a questo popolo di coloni parsimoniosi e di soldati frugali, satolli d’aglio e di orzo, improvvisamente immersi dalla conquista nelle delizie della cucina asiatica che ingozza manicaretti con la voracità rustica dei contadini. I nostri romani si rimpinzano di cacciagione, s’inondano di salse, e s’intossicano di spezie. Un Apicio va fiero della successione di portate, di quella serie di vivande piccanti o dolci, grevi o delicate, che compongono l’armonica disposizione dei suoi banchetti; e passi ancora se ciascuno di tali cibi fosse servito separatamente, assimilato a digiuno, sapientemente assaporato da un buongustaio dalle papille intatte. Ma serviti così, giornalmente, alla rinfusa, in mezzo a una profusione banale, essi formano nel palato e nello stomaco di chi mangia una confusione detestabile, nella quale odori, sapori, sostanze perdono il loro rispettivo valore, la loro squisita identità. Un tempo quel povero Lucio si dilettava a prepararmi qualche piatto raro; i suoi pasticci di fagiano, dove prosciutto e spezie vanno sapientemente dosati, erano il risultato di un’arte, esattamente come quella del musico o del pittore; eppure rimpiangevo la carne pura e semplice del bel volatile.
In Grecia se ne intendono di più: quel vino che sa di resina, quel pane al sesamo, quei pesci girati sulla griglia in riva al mare, anneriti irregolarmente dal fuoco, insaporiti qua e là da un granello di sabbia che scricchiola sotto i denti si limitavano a placare l’appetito, senza sovraccaricare di complicazioni il più elementare dei piaceri. Ho assaporato, in qualche bettola di Egina o al Falero, cibi così freschi che restavano divinamente puliti a onta delle dita sudice dello sguattero che mi serviva; così sobri ma al tempo stesso così sostanziosi che pareva contenessero, nella forma più condensata possibile, un’essenza di immortalità. Anche la carne, arrostita la sera dopo la caccia, conteneva questa qualità direi quasi di sacramento, ci riportava indietro, alle origini selvagge delle razze; così il vino ci inizia ai misteri vulcanici del suolo, ai suoi misteriosi tesori: bere una coppa di vino di Samo, a mezzogiorno, col sole alto, o piuttosto sorseggiarla una sera d’inverno, quando si è in quello stato di fatica che consente di sentirlo immediatamente colare caldo nella cavità del diaframma, e diffondersi nelle vene ardente e sicuro, sono sensazioni quasi sacre, persino troppo violente, per la mente umana. Non le ritrovo altrettanto genuine quando esco dalle cantine numerate di Roma, e mi spazientisce la pedanteria dei conoscitori di vigneti. Così, con un gesto ancor più devoto, bere l’acqua nel cavo delle mani o direttamente alla sorgente, fa si che penetri in noi il sale più segreto della terra, e la pioggia del cielo.”

Marguerite Yourcenar, Memorie d’Adriano, Einaudi (traduzione di Lidia Storoni Mazzolani)

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